lunedì 20 marzo 2017
domenica 10 aprile 2016
sabato 12 marzo 2016
Jean Giono L'uomo che piantava gli alberi
Una quarantina circa di anni fa, stavo facendo una lunga camminata, tra cime assolutamente sconosciute ai turisti, in quella antica regione delle Alpi che penetra in Provenza.
Questa regione è delimitata a sud-est e a sud dal corso medio della Durance, tra Sisteron e Mirabeau; a nord dal corso superiore della Drome, dalla sorgente sino a Die; a ovest dalle pianure del Comtat Venaissin e i contrafforti del Monte Ventoux. Essa comprende tutta la parte settentrionale del dipartimento delle Basse Alpi, il sud della Drome e una piccola enclave della Valchiusa.
Si trattava, quando intrapresi la mia lunga passeggiata in quel deserto, di lande nude e monotone, tra i milledue e i milletrecento metri di altitudine. L’unica vegetazione che vi cresceva era la lavanda selvatica.
Attraversavo la regione per la sua massima larghezza e, dopo tre giorni di marcia, mi ritrovavo in mezzo a una desolazione senza pari. Mi accampai di fianco allo scheletro di un villaggio abbandonato. Non avevo più acqua dal giorno prima e avevo necessità di trovarne. Quell’agglomerato di case, benché in rovina, simile a un vecchio alveare, mi fece pensare che dovevano esserci stati, una volta, una fonte o un pozzo. C’era difatti una fonte, ma secca. Le cinque o sei case, senza tetto, corrose dal vento e dalla pioggia, e la piccola cappella col campanile crollato erano disposte come le case e le cappelle dei villaggi abitati, ma la vita era scomparsa.
Era una bella giornata di giugno, molto assolata ma, su quelle terre senza riparo e alte nel cielo, il vento soffiava con brutalità insopportabile. I suoi ruggiti nelle carcasse delle case erano quelli d’una belva molestata durante il pasto.
Dovetti riprendere la marcia. Cinque ore più tardi non avevo ancora trovato acqua e nulla mi dava speranza di trovarne. Dappertutto la stessa aridità, le stesse erbacce legnose. Mi parve di scorgere in lontananza una piccola sagoma nera, in piedi. La presi per il tronco d’un albero solitario. A ogni modo mi avvicinai. Era un pastore. Una trentina di pecore sdraiate sulla terra cocente si riposavano accanto a lui.
Mi fece bere dalla sua borraccia e, poco più tardi, mi portò nel suo ovile, in una ondulazione del pianoro. Tirava su l’acqua, ottima, da un foro naturale, molto profondo, al di sopra del quale aveva installato un rudimentale verricello.
L’uomo parlava poco, com’è nella natura dei solitari, ma lo si sentiva sicuro di sé e confidente in quella sicurezza. Era una presenza insolita in quella regione spogliata di tutto. Non abitava in una capanna ma in una vera casa di pietra, ed era evidente come il suo lavoro personale avesse rappezzato la rovina che aveva trovato al suo arrivo. Il tetto era solido e stagno. Il vento che lo batteva faceva sulle tegole il rumore del mare sulla spiaggia.
La casa era in ordine, i piatti lavati, il pavimento di legno spazzato, il fucile ingrassato; la minestra bolliva sul fuoco. Notai che l’uomo era rasato di fresco, che tutti i suoi bottoni erano solidamente cuciti, che i suoi vestiti erano rammendati con la cura minuziosa che rende i rammendi invisibili.
Divise con me la minestra e, quando gli offrii la borsa del tabacco, mi rispose che non fumava. Il suo cane, silenzioso come lui, era affettuoso senza bassezza.
Era rimasto subito inteso che avrei passato la notte da lui; il villaggio più vicino era a più di un giorno e mezzo di cammino. E, oltretutto, conoscevo perfettamente il carattere dei rari villaggi di quella regione. Ce ne sono quattro o cinque sparsi lontani gli uni dagli altri sulle pendici di quelle cime, nei boschi di querce al fondo estremo delle strade carrozzabili.
Sono abitati da boscaioli che producono carbone di legno. Sono posti dove si vive male. Le famiglie, serrate l’una contro l’altra in quel clima di una rudezza eccessiva, d’estate come d’inverno, esasperano il proprio egoismo sotto vuoto. L’ambizione irragionevole si sviluppa senza misura, nel desiderio di sfuggire a quei luoghi.
Gli uomini portano il carbone in città con i camion, poi tornano. Le più solide qualità scricchiolano sotto questa perpetua doccia scozzese. Le donne covano rancori. C’è concorrenza su tutto, per la vendita del carbone come per il banco di chiesa, per le virtù che lottano tra di loro, per i vizi che lottano tra di loro e per il miscuglio dei vizi e delle virtù, senza posa. Per sovrappiù, il vento altrettanto senza posa irrita i nervi. Ci sono epidemie di suicidi e numerosi casi di follia, quasi sempre assassina.
Il pastore che non fumava prese un sacco e rovesciò sul tavolo un mucchio di ghiande. Si mise a esaminarle l’una dopo l’altra con grande attenzione, separando le buone dalle guaste. Io fumavo la pipa. Gli proposi di aiutarlo. Mi rispose che era affar suo. In effetti, vista la cura che metteva in quel lavoro, non insistetti. Fu tutta la nostra conversazione. Quando ebbe messo dalla parte delle buone un mucchio abbastanza grosso di ghiande, le divise in mucchietti da dieci. Così facendo eliminò ancora i frutti piccoli o quelli leggermente screpolati, poiché li esaminava molto da vicino. Quando infine ebbe davanti a sé cento ghiande perfette, si fermò e andammo a dormire.
La società di quell’uomo dava pace. Gli domandai l’indomani il permesso di riposarmi per l’intera giornata da lui. Lo trovò del tutto naturale o, più esattamente, mi diede l’impressione che nulla potesse disturbarlo. Quel riposo non mi era affatto necessario, ma ero intrigato e ne volevo sapere di più. Il pastore fece uscire il suo gregge e lo portò al pascolo. Prima di uscire, bagnò in un secchio d’acqua il sacco in cui aveva messo le ghiande meticolosamente scelte e contate.
Notai che in guisa di bastone portava un’asta di ferro della grossezza di un pollice e lunga un metro e mezzo. Feci mostra di voler fare una passeggiata di riposo e seguii una strada parallela alla sua. Il pascolo delle bestie era in un avallamento. Lasciò il piccolo gregge in guardia al cane e salì verso di me. Temetti che venisse per rimproverarmi della mia indiscrezione ma niente affatto, quella era la strada che doveva fare e m’invitò ad accompagnarlo se non avevo di meglio. Andava a duecento metri da lì, più a monte. Arrivato dove desiderava, cominciò a piantare la sua asta di ferro in terra. Faceva così un buco nel quale depositava una ghianda, dopo di che turava di nuovo il buco. Piantava querce. Gli domandai se quella terra gli apparteneva. Mi rispose di no. Sapeva di chi era? Non lo sapeva. Supponeva che fosse una terra comunale, o forse proprietà di gente che non se ne curava? Non gli interessava conoscerne i proprietari. Piantò così le cento ghiande con estrema cura.
Dopo il pranzo di mezzogiorno ricominciò a scegliere le ghiande. Misi, credo, sufficiente insistenza nelle mie domande, perché mi rispose. Da tre anni piantava alberi in quella solitudine. Ne aveva piantati centomila. Di centomila, ne erano spuntati ventimila. Di quei ventimila, contava di perderne ancora la metà, a causa dei roditori o di tutto quel che c’è di imprevedibile nei disegni della Provvidenza. Restavano diecimila querce che sarebbero cresciute in quel posto dove prima non c’era nulla.
Fu a quel momento che mi interessai dell’età di quell’uomo. Aveva evidentemente più di cinquant’anni. Cinquantacinque, mi disse lui. Si chiamava Elzéard Bouffier. Aveva posseduto una fattoria in pianura. Aveva vissuto la sua vita.
Aveva perso il figlio unico, poi la moglie. S’era ritirato nella solitudine dove trovava piacere a vivere lentamente, con le pecore e il cane. Aveva pensato che quel paese sarebbe morto per mancanza d’alberi. Aggiunse che, non avendo altre occupazioni più importanti, s’era risolto a rimediare a quello stato di cose.
Poiché conducevo anch’io in quel momento, malgrado la giovane età, una vita solitaria, sapevo toccare con delicatezza l’anima dei solitari. Tuttavia, commisi un errore. La mia giovane età, appunto, mi portava a immaginare l’avvenire in funzione di me stesso e di una qual certa ricerca di felicità. Dissi che nel giro di trent’anni quelle diecimila querce sarebbero state magnifiche. Mi rispose con gran semplicità che, se Dio gli avesse prestato la vita, nel giro di trent’anni ne avrebbe piantate tante altre che quelle diecimila sarebbero state come una goccia nel mare.
Stava già studiando, d’altra parte, la riproduzione dei faggi e aveva accanto alla casa un vivaio generato dalle faggine. I soggetti, che aveva protetto dalle pecore con una barriera di rete metallica, erano di grande bellezza. Pensava inoltre alle betulle per i terreni dove, mi diceva, una certa umidità dormiva a qualche metro dalla superficie del suolo.
Ci separammo il giorno dopo.
L’anno seguente ci fu la guerra del ’14, che mi impegnò per cinque anni. Un soldato di fanteria non poteva pensare agli alberi. A dir la verità, la cosa non mi era nemmeno rimasta impressa; l’avevo considerata come un passatempo, una collezione di francobolli, e dimenticata.
Finita la guerra mi trovai con un’indennità di congedo minuscola ma con il grande desiderio di respirare un poco d’aria pura. Senza idee preconcette, quindi, tranne quella, ripresi la strada di quelle contrade deserte.
Il paese era cambiato. Tuttavia, oltre il villaggio abbandonato, scorsi in lontananza una specie di nebbia grigia che ricopriva le cime come un tappeto. Dalla vigilia m’ero rimesso a pensare a quel pastore che piantava gli alberi. Diecimila querce, mi dicevo, occupano davvero un grande spazio.
Avevo visto morire troppa gente in cinque anni per non immaginarmi facilmente anche la morte di Elzéard Bouffier, tanto più che, quando si ha vent’anni, si considerano le persone di cinquanta come dei vecchi a cui resta soltanto da morire. Non era morto. Gli erano rimaste solo quattro pecore ma, in cambio, possedeva un centinaio di alveari. Si era sbarazzato delle bestie che mettevano in pericolo i suoi alberi. Perché, mi disse (e lo constatai), non s’era per nulla curato della guerra. Aveva continuato imperturbabilmente a piantare.
Le querce del 1910 avevano adesso dieci anni ed erano più alte di me e di lui. Lo spettacolo era impressionante. Ero letteralmente ammutolito e, poiché lui non parlava, passammo l’intera giornata a passeggiare in silenzio per la sua foresta. Misurava, in tre tronconi, undici chilometri nella sua lunghezza massima. Se si teneva a mente che era tutto scaturito dalle mani e dall’anima di quell’uomo, senza mezzi tecnici, si comprendeva come gli uomini potrebbero essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre alla distruzione.
Aveva seguito la sua idea, e i faggi che mi arrivavano alle spalle, sparsi a perdita d’occhio, ne erano la prova. Le querce erano fitte e avevano passato l’età in cui potevano essere alla mercé dei roditori; quanto ai disegni della Provvidenza stessa per distruggere l’opera creata, avrebbe dovuto ormai ricorrere ai cicloni. Bouffier mi mostrò dei mirabili boschetti di betulle che datavano a cinque anni prima, cioè al 1915, l’epoca in cui io combattevo a Verdun. Le aveva piantate in tutti i terreni dove sospettava, a ragione, che ci fosse umidità quasi a fior di terra. Erano tenere come delle adolescenti e molto decise.
Il processo aveva l’aria, d’altra parte, di funzionare a catena. Lui non se ne curava; perseguiva ostinatamente il proprio compito, molto semplice. Ma, ridiscendendo al villaggio, vidi scorrere dell’acqua in ruscelli che, a memoria d’uomo, erano sempre stati secchi. Era la più straordinaria forma di reazione che abbia mai avuto modo di vedere. Quei ruscelli avevano già portato dell’acqua, in tempi molto antichi.
Alcuni dei tristi villaggi di cui ho parlato all’inizio del mio racconto sorgevano su siti di antichi villaggi gallo-romani di cui restavano ancora vestigia nelle quali gli archeologi avevano scavato trovando ami in posti dove nel ventesimo secolo si doveva far ricorso alle cisterne per avere un po’ d’acqua.
Anche il vento disperdeva certi semi. Con l’acqua erano riapparsi anche i salici, i giunchi, i prati, i giardini i fiori e una certa ragione di vivere.
Ma la trasformazione avveniva così lentamente che entrava nell’abitudine senza provocare stupore. I cacciatori che salivano in quelle solitudini seguendo le lepri o i cinghiali s’erano accorti del rigoglio di alberelli, ma l’avevano messo in conto alle malizie naturali della terra. Perciò nessuno disturbava l’opera di quell’uomo. Se l’avessero sospettato, l’avrebbero ostacolato. Era insospettabile. Chi avrebbe potuto immaginare, nei villaggi e nelle amministrazioni, una tale ostinazione nella più magnifica generosità?
A partire dal 1920 non ho mai passato più d’un anno senza andare trovare Elzéard Bouffier. Non l’ho mai visto cedere né dubitare. Eppure, Dio solo sa di averlo messo alla prova! Non ho fatto il conto delle sue delusioni. E’ facile immaginarsi tuttavia che, per una simile riuscita, sia stato necessario vincere le avversità; che, per assicurare la vittoria di tanta passione, sia stato necessario lottare contro lo sconforto. Bouffier aveva piantato, un anno, più di diecimila aceri. Morirono tutti. L’anno dopo abbandonò gli aceri per riprendere i faggi che riuscirono ancora meglio delle querce.
Per farsi un’idea più precisa di quell’eccezionale carattere, non bisogna dimenticare che operava in una solitudine totale; al punto che, verso la fine della vita, aveva perso del tutto l’abitudine a parlare. O, forse, non ne vedeva la necessità.
Nel 1933 ricevette la visita di una guardia forestale sbalordita. Il funzionario gli intimò l’ordine di non accendere fuochi all’aperto, per non mettere in pericolo la crescita di quella foresta naturale. Era la prima volta, gli spiegò quell’uomo ingenuo, che si vedeva una foresta spuntare da sola. A quell’epoca Bouffier andava a piantare faggi a dodici chilometri da casa. Per evitare il viaggio di andata e ritorno, poiché aveva ormai settantacinque anni, stava considerando la possibilità di costruirsi una casupola di pietra sul luogo stesso dove piantava. Ciò che fece l’anno seguente.
Nel 1935 una vera e propria delegazione governativa venne a esaminare la foresta naturale. C’erano un pezzo grosso delle Acque e Foreste, un deputato, dei tecnici. Fu deciso di fare qualcosa e, fortunatamente , non si fece nulla, tranne l’unica cosa utile: mettere la foresta sotto la tutela dello Stato e proibire che si venisse a farne carbone. Perché era impossibile non restare soggiogati dalla bellezza di quei giovani alberi in piena salute. Esercitò il proprio potere di seduzione persino sul deputato.
Un capitano forestale mio amico faceva parte della delegazione. Gli spiegai il mistero. Un giorno della settimana seguente andammo insieme a cercare Elzéard Bouffier. Lo trovammo in pieno lavoro, a venti chilometri da dove aveva avuto luogo l’ispezione.
Quel capitano forestale non era mio amico per nulla. Conosceva il valore delle cose. Seppe restare in silenzio. Offrii le uova che avevo portato in regalo. Dividemmo il nostro spuntino in tre e restammo qualche ora nella muta contemplazione del paesaggio.
La costa che avevamo percorso era coperta d’alberi che andavano da sei a otto metri di altezza. Mi ricordavo l’aspetto di quelle terre nel 1913, il deserto… Il lavoro calmo e regolare, l’aria viva d’altura, la frugalità e soprattutto la serenità dell’anima avevano conferito a quel vecchio una salute quasi solenne. Era un atleta di Dio. Mi domandavo quanti altri ettari avrebbe coperto di alberi.
Prima di partire il mio amico azzardò soltanto qualche suggerimento a proposito di certe essenze alle quali il terreno sembrava adattarsi. Non insistette. “Per la semplice ragione”, mi spiegò poi, “che quel signore ne sa più di me”. Dopo un’ora di cammino, dopo che l’idea aveva progredito in lui, aggiunse: “Ne sa più di tutti. Ha trovato un bel modo di essere felice!”.
E’ grazie a quel capitano che, non solo la foresta, ma anche la felicità di quell’uomo, furono protette. Fece nominare tre guardie forestali per quella protezione e le terrorizzò a tal punto che rimasero insensibili alle mazzette offerte dai boscaioli.
L’opera corse un grave rischio solo durante la guerra del 1939. Perché le automobili andavano allora col gasogeno, non c’era mai abbastanza legna. Cominciarono a tagliare le querce del 1910, ma l’area era talmente lontana da tutte le reti stradali che l’impresa si rivelò fallimentare dal punto di vista finanziario. Fu abbandonata. Il pastore non aveva visto nulla. Era a trenta chilometri di distanza, e continuava pacificamente il proprio lavoro, ignorando la guerra del ’39 come aveva ignorato quella del ’14.
Ho visto Elzéard Bouffier per l’ultima volta nel giugno del 1945. Aveva ottantasette anni. Avevo ripreso la strada del deserto ma adesso, nonostante la rovina in cui la guerra aveva lasciato il paese, c’era una corriera che faceva servizio tra la valle della Durance e la montagna. Misi sul conto di quel mezzo di trasporto relativamente rapido il fatto che non riconoscessi più i luoghi delle mie prime passeggiate. Mi parve anche che l’itinerario mi facesse passare in posti nuovi. Ebbi bisogno del nome di un villaggio per concludere che invece mi trovavo proprio in quella zona un tempo in rovina e desolata. La corriera mi portò a Vergons.
Nel 1913 quella frazione di una dozzina di case contava tre abitanti. Erano dei selvaggi, si odiavano, vivevano di caccia con le trappole; più o meno erano nello stato fisico e morale degli uomini preistorici. Le ortiche divoravano attorno a loro le case abbandonate.
La loro condizione era senza speranza. Non avevano altro da fare che attendere la morte: situazione che non dispone alla virtù.
Ora tutto era cambiato. L’aria stessa. Invece delle bufere secche e brutali che mi avevano accolto un tempo, soffiava una brezza docile carica di odori. Un rumore simile a quello dell’acqua veniva dalla cima delle montagne: era il vento nella foresta. Infine, cosa più sorprendente, udii il vero rumore dell’acqua scrosciante in una vasca. Vidi che avevano costruito una fontana; l’acqua vi era abbondante e, ciò che soprattutto mi commosse, vidi che vicino ad essa avevano piantato un tiglio di forse quattro anni, già rigoglioso, simbolo incontestabile di una resurrezione.
In generale Vergons portava i segni di un lavoro per la cui impresa era necessaria la speranza. La speranza era dunque tornata. Avevano sgomberato le rovine, abbattuto i muri crollati e ricostruito cinque case. La frazione contava ormai diciotto abitanti, tra cui quattro giovani famiglie. Le case nuove, intonacate di fresco, erano circondate da orti in cui crescevano, mescolati ma allineati, verdure e fiori, cavoli e rose, porri e bocche di leone, sedani e anemoni. Era ormai un posto dove si aveva voglia di abitare.
Da lì proseguii a piedi. La guerra da cui eravamo appena usciti non aveva consentito il rifiorire completo della vita, ma Lazzaro era ormai uscito dalla tomba. Sulle pendici più basse della montagna, vedevo i campicelli di orzo e segale in erba; in fondo alle strette vallate, qualche prateria verdeggiava.
Sono bastati gli otto anni che ci separano da quell’epoca perché tutta la zona risplenda di salute e felicità. Dove nel 1913 avevo visto solo rovine sorgono ora fattorie pulite, ben intonacate, che denotano una vita lieta e comoda. Le vecchie fonti, alimentate dalle piogge e le nevi che la foresta ritiene, hanno ripreso a scorrere. Le acque sono state canalizzate. A lato di ogni fattoria, in mezzo a boschetti di aceri, le vasche delle fontane lasciano debordare l’acqua su tappeti di menta. I villaggi si sono ricostruiti a poco a poco. Una popolazione venuta dalle pianure, dove la terra costa cara, si è stabilita qui, portando gioventù, movimento, spirito d’avventura. S’incontrano per le strade uomini e donne ben nutriti, ragazzi e ragazze che sanno ridere e hanno ripreso il gusto per le feste campestri.
Se si conta la vecchia popolazione, irriconoscibile da quando vive nell’armonia, e i nuovi venuti, più di diecimila persone devono la loro felicità a Elzéard Bouffier.
Quando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole. Ma, se metto in conto quanto c’è voluto i costanza nella grandezza d’animo e d’accanimento nella generosità per ottenere questo risultato, l’anima mi si riempie d’un enorme rispetto per quel vecchio contadino senza cultura che ha saputo portare a buon fine un’opera degna di Dio.
Elzéard Bouffier è morto serenamente nel 1947, all’ospizio di Banon.
[Testo scaricato dal sito: http://www.culturalegno.org/]
Questa regione è delimitata a sud-est e a sud dal corso medio della Durance, tra Sisteron e Mirabeau; a nord dal corso superiore della Drome, dalla sorgente sino a Die; a ovest dalle pianure del Comtat Venaissin e i contrafforti del Monte Ventoux. Essa comprende tutta la parte settentrionale del dipartimento delle Basse Alpi, il sud della Drome e una piccola enclave della Valchiusa.
Si trattava, quando intrapresi la mia lunga passeggiata in quel deserto, di lande nude e monotone, tra i milledue e i milletrecento metri di altitudine. L’unica vegetazione che vi cresceva era la lavanda selvatica.
Attraversavo la regione per la sua massima larghezza e, dopo tre giorni di marcia, mi ritrovavo in mezzo a una desolazione senza pari. Mi accampai di fianco allo scheletro di un villaggio abbandonato. Non avevo più acqua dal giorno prima e avevo necessità di trovarne. Quell’agglomerato di case, benché in rovina, simile a un vecchio alveare, mi fece pensare che dovevano esserci stati, una volta, una fonte o un pozzo. C’era difatti una fonte, ma secca. Le cinque o sei case, senza tetto, corrose dal vento e dalla pioggia, e la piccola cappella col campanile crollato erano disposte come le case e le cappelle dei villaggi abitati, ma la vita era scomparsa.
Era una bella giornata di giugno, molto assolata ma, su quelle terre senza riparo e alte nel cielo, il vento soffiava con brutalità insopportabile. I suoi ruggiti nelle carcasse delle case erano quelli d’una belva molestata durante il pasto.
Dovetti riprendere la marcia. Cinque ore più tardi non avevo ancora trovato acqua e nulla mi dava speranza di trovarne. Dappertutto la stessa aridità, le stesse erbacce legnose. Mi parve di scorgere in lontananza una piccola sagoma nera, in piedi. La presi per il tronco d’un albero solitario. A ogni modo mi avvicinai. Era un pastore. Una trentina di pecore sdraiate sulla terra cocente si riposavano accanto a lui.
Mi fece bere dalla sua borraccia e, poco più tardi, mi portò nel suo ovile, in una ondulazione del pianoro. Tirava su l’acqua, ottima, da un foro naturale, molto profondo, al di sopra del quale aveva installato un rudimentale verricello.
L’uomo parlava poco, com’è nella natura dei solitari, ma lo si sentiva sicuro di sé e confidente in quella sicurezza. Era una presenza insolita in quella regione spogliata di tutto. Non abitava in una capanna ma in una vera casa di pietra, ed era evidente come il suo lavoro personale avesse rappezzato la rovina che aveva trovato al suo arrivo. Il tetto era solido e stagno. Il vento che lo batteva faceva sulle tegole il rumore del mare sulla spiaggia.
La casa era in ordine, i piatti lavati, il pavimento di legno spazzato, il fucile ingrassato; la minestra bolliva sul fuoco. Notai che l’uomo era rasato di fresco, che tutti i suoi bottoni erano solidamente cuciti, che i suoi vestiti erano rammendati con la cura minuziosa che rende i rammendi invisibili.
Divise con me la minestra e, quando gli offrii la borsa del tabacco, mi rispose che non fumava. Il suo cane, silenzioso come lui, era affettuoso senza bassezza.
Era rimasto subito inteso che avrei passato la notte da lui; il villaggio più vicino era a più di un giorno e mezzo di cammino. E, oltretutto, conoscevo perfettamente il carattere dei rari villaggi di quella regione. Ce ne sono quattro o cinque sparsi lontani gli uni dagli altri sulle pendici di quelle cime, nei boschi di querce al fondo estremo delle strade carrozzabili.
Sono abitati da boscaioli che producono carbone di legno. Sono posti dove si vive male. Le famiglie, serrate l’una contro l’altra in quel clima di una rudezza eccessiva, d’estate come d’inverno, esasperano il proprio egoismo sotto vuoto. L’ambizione irragionevole si sviluppa senza misura, nel desiderio di sfuggire a quei luoghi.
Gli uomini portano il carbone in città con i camion, poi tornano. Le più solide qualità scricchiolano sotto questa perpetua doccia scozzese. Le donne covano rancori. C’è concorrenza su tutto, per la vendita del carbone come per il banco di chiesa, per le virtù che lottano tra di loro, per i vizi che lottano tra di loro e per il miscuglio dei vizi e delle virtù, senza posa. Per sovrappiù, il vento altrettanto senza posa irrita i nervi. Ci sono epidemie di suicidi e numerosi casi di follia, quasi sempre assassina.
Il pastore che non fumava prese un sacco e rovesciò sul tavolo un mucchio di ghiande. Si mise a esaminarle l’una dopo l’altra con grande attenzione, separando le buone dalle guaste. Io fumavo la pipa. Gli proposi di aiutarlo. Mi rispose che era affar suo. In effetti, vista la cura che metteva in quel lavoro, non insistetti. Fu tutta la nostra conversazione. Quando ebbe messo dalla parte delle buone un mucchio abbastanza grosso di ghiande, le divise in mucchietti da dieci. Così facendo eliminò ancora i frutti piccoli o quelli leggermente screpolati, poiché li esaminava molto da vicino. Quando infine ebbe davanti a sé cento ghiande perfette, si fermò e andammo a dormire.
La società di quell’uomo dava pace. Gli domandai l’indomani il permesso di riposarmi per l’intera giornata da lui. Lo trovò del tutto naturale o, più esattamente, mi diede l’impressione che nulla potesse disturbarlo. Quel riposo non mi era affatto necessario, ma ero intrigato e ne volevo sapere di più. Il pastore fece uscire il suo gregge e lo portò al pascolo. Prima di uscire, bagnò in un secchio d’acqua il sacco in cui aveva messo le ghiande meticolosamente scelte e contate.
Notai che in guisa di bastone portava un’asta di ferro della grossezza di un pollice e lunga un metro e mezzo. Feci mostra di voler fare una passeggiata di riposo e seguii una strada parallela alla sua. Il pascolo delle bestie era in un avallamento. Lasciò il piccolo gregge in guardia al cane e salì verso di me. Temetti che venisse per rimproverarmi della mia indiscrezione ma niente affatto, quella era la strada che doveva fare e m’invitò ad accompagnarlo se non avevo di meglio. Andava a duecento metri da lì, più a monte. Arrivato dove desiderava, cominciò a piantare la sua asta di ferro in terra. Faceva così un buco nel quale depositava una ghianda, dopo di che turava di nuovo il buco. Piantava querce. Gli domandai se quella terra gli apparteneva. Mi rispose di no. Sapeva di chi era? Non lo sapeva. Supponeva che fosse una terra comunale, o forse proprietà di gente che non se ne curava? Non gli interessava conoscerne i proprietari. Piantò così le cento ghiande con estrema cura.
Dopo il pranzo di mezzogiorno ricominciò a scegliere le ghiande. Misi, credo, sufficiente insistenza nelle mie domande, perché mi rispose. Da tre anni piantava alberi in quella solitudine. Ne aveva piantati centomila. Di centomila, ne erano spuntati ventimila. Di quei ventimila, contava di perderne ancora la metà, a causa dei roditori o di tutto quel che c’è di imprevedibile nei disegni della Provvidenza. Restavano diecimila querce che sarebbero cresciute in quel posto dove prima non c’era nulla.
Fu a quel momento che mi interessai dell’età di quell’uomo. Aveva evidentemente più di cinquant’anni. Cinquantacinque, mi disse lui. Si chiamava Elzéard Bouffier. Aveva posseduto una fattoria in pianura. Aveva vissuto la sua vita.
Aveva perso il figlio unico, poi la moglie. S’era ritirato nella solitudine dove trovava piacere a vivere lentamente, con le pecore e il cane. Aveva pensato che quel paese sarebbe morto per mancanza d’alberi. Aggiunse che, non avendo altre occupazioni più importanti, s’era risolto a rimediare a quello stato di cose.
Poiché conducevo anch’io in quel momento, malgrado la giovane età, una vita solitaria, sapevo toccare con delicatezza l’anima dei solitari. Tuttavia, commisi un errore. La mia giovane età, appunto, mi portava a immaginare l’avvenire in funzione di me stesso e di una qual certa ricerca di felicità. Dissi che nel giro di trent’anni quelle diecimila querce sarebbero state magnifiche. Mi rispose con gran semplicità che, se Dio gli avesse prestato la vita, nel giro di trent’anni ne avrebbe piantate tante altre che quelle diecimila sarebbero state come una goccia nel mare.
Stava già studiando, d’altra parte, la riproduzione dei faggi e aveva accanto alla casa un vivaio generato dalle faggine. I soggetti, che aveva protetto dalle pecore con una barriera di rete metallica, erano di grande bellezza. Pensava inoltre alle betulle per i terreni dove, mi diceva, una certa umidità dormiva a qualche metro dalla superficie del suolo.
Ci separammo il giorno dopo.
L’anno seguente ci fu la guerra del ’14, che mi impegnò per cinque anni. Un soldato di fanteria non poteva pensare agli alberi. A dir la verità, la cosa non mi era nemmeno rimasta impressa; l’avevo considerata come un passatempo, una collezione di francobolli, e dimenticata.
Finita la guerra mi trovai con un’indennità di congedo minuscola ma con il grande desiderio di respirare un poco d’aria pura. Senza idee preconcette, quindi, tranne quella, ripresi la strada di quelle contrade deserte.
Il paese era cambiato. Tuttavia, oltre il villaggio abbandonato, scorsi in lontananza una specie di nebbia grigia che ricopriva le cime come un tappeto. Dalla vigilia m’ero rimesso a pensare a quel pastore che piantava gli alberi. Diecimila querce, mi dicevo, occupano davvero un grande spazio.
Avevo visto morire troppa gente in cinque anni per non immaginarmi facilmente anche la morte di Elzéard Bouffier, tanto più che, quando si ha vent’anni, si considerano le persone di cinquanta come dei vecchi a cui resta soltanto da morire. Non era morto. Gli erano rimaste solo quattro pecore ma, in cambio, possedeva un centinaio di alveari. Si era sbarazzato delle bestie che mettevano in pericolo i suoi alberi. Perché, mi disse (e lo constatai), non s’era per nulla curato della guerra. Aveva continuato imperturbabilmente a piantare.
Le querce del 1910 avevano adesso dieci anni ed erano più alte di me e di lui. Lo spettacolo era impressionante. Ero letteralmente ammutolito e, poiché lui non parlava, passammo l’intera giornata a passeggiare in silenzio per la sua foresta. Misurava, in tre tronconi, undici chilometri nella sua lunghezza massima. Se si teneva a mente che era tutto scaturito dalle mani e dall’anima di quell’uomo, senza mezzi tecnici, si comprendeva come gli uomini potrebbero essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre alla distruzione.
Aveva seguito la sua idea, e i faggi che mi arrivavano alle spalle, sparsi a perdita d’occhio, ne erano la prova. Le querce erano fitte e avevano passato l’età in cui potevano essere alla mercé dei roditori; quanto ai disegni della Provvidenza stessa per distruggere l’opera creata, avrebbe dovuto ormai ricorrere ai cicloni. Bouffier mi mostrò dei mirabili boschetti di betulle che datavano a cinque anni prima, cioè al 1915, l’epoca in cui io combattevo a Verdun. Le aveva piantate in tutti i terreni dove sospettava, a ragione, che ci fosse umidità quasi a fior di terra. Erano tenere come delle adolescenti e molto decise.
Il processo aveva l’aria, d’altra parte, di funzionare a catena. Lui non se ne curava; perseguiva ostinatamente il proprio compito, molto semplice. Ma, ridiscendendo al villaggio, vidi scorrere dell’acqua in ruscelli che, a memoria d’uomo, erano sempre stati secchi. Era la più straordinaria forma di reazione che abbia mai avuto modo di vedere. Quei ruscelli avevano già portato dell’acqua, in tempi molto antichi.
Alcuni dei tristi villaggi di cui ho parlato all’inizio del mio racconto sorgevano su siti di antichi villaggi gallo-romani di cui restavano ancora vestigia nelle quali gli archeologi avevano scavato trovando ami in posti dove nel ventesimo secolo si doveva far ricorso alle cisterne per avere un po’ d’acqua.
Anche il vento disperdeva certi semi. Con l’acqua erano riapparsi anche i salici, i giunchi, i prati, i giardini i fiori e una certa ragione di vivere.
Ma la trasformazione avveniva così lentamente che entrava nell’abitudine senza provocare stupore. I cacciatori che salivano in quelle solitudini seguendo le lepri o i cinghiali s’erano accorti del rigoglio di alberelli, ma l’avevano messo in conto alle malizie naturali della terra. Perciò nessuno disturbava l’opera di quell’uomo. Se l’avessero sospettato, l’avrebbero ostacolato. Era insospettabile. Chi avrebbe potuto immaginare, nei villaggi e nelle amministrazioni, una tale ostinazione nella più magnifica generosità?
A partire dal 1920 non ho mai passato più d’un anno senza andare trovare Elzéard Bouffier. Non l’ho mai visto cedere né dubitare. Eppure, Dio solo sa di averlo messo alla prova! Non ho fatto il conto delle sue delusioni. E’ facile immaginarsi tuttavia che, per una simile riuscita, sia stato necessario vincere le avversità; che, per assicurare la vittoria di tanta passione, sia stato necessario lottare contro lo sconforto. Bouffier aveva piantato, un anno, più di diecimila aceri. Morirono tutti. L’anno dopo abbandonò gli aceri per riprendere i faggi che riuscirono ancora meglio delle querce.
Per farsi un’idea più precisa di quell’eccezionale carattere, non bisogna dimenticare che operava in una solitudine totale; al punto che, verso la fine della vita, aveva perso del tutto l’abitudine a parlare. O, forse, non ne vedeva la necessità.
Nel 1933 ricevette la visita di una guardia forestale sbalordita. Il funzionario gli intimò l’ordine di non accendere fuochi all’aperto, per non mettere in pericolo la crescita di quella foresta naturale. Era la prima volta, gli spiegò quell’uomo ingenuo, che si vedeva una foresta spuntare da sola. A quell’epoca Bouffier andava a piantare faggi a dodici chilometri da casa. Per evitare il viaggio di andata e ritorno, poiché aveva ormai settantacinque anni, stava considerando la possibilità di costruirsi una casupola di pietra sul luogo stesso dove piantava. Ciò che fece l’anno seguente.
Nel 1935 una vera e propria delegazione governativa venne a esaminare la foresta naturale. C’erano un pezzo grosso delle Acque e Foreste, un deputato, dei tecnici. Fu deciso di fare qualcosa e, fortunatamente , non si fece nulla, tranne l’unica cosa utile: mettere la foresta sotto la tutela dello Stato e proibire che si venisse a farne carbone. Perché era impossibile non restare soggiogati dalla bellezza di quei giovani alberi in piena salute. Esercitò il proprio potere di seduzione persino sul deputato.
Un capitano forestale mio amico faceva parte della delegazione. Gli spiegai il mistero. Un giorno della settimana seguente andammo insieme a cercare Elzéard Bouffier. Lo trovammo in pieno lavoro, a venti chilometri da dove aveva avuto luogo l’ispezione.
Quel capitano forestale non era mio amico per nulla. Conosceva il valore delle cose. Seppe restare in silenzio. Offrii le uova che avevo portato in regalo. Dividemmo il nostro spuntino in tre e restammo qualche ora nella muta contemplazione del paesaggio.
La costa che avevamo percorso era coperta d’alberi che andavano da sei a otto metri di altezza. Mi ricordavo l’aspetto di quelle terre nel 1913, il deserto… Il lavoro calmo e regolare, l’aria viva d’altura, la frugalità e soprattutto la serenità dell’anima avevano conferito a quel vecchio una salute quasi solenne. Era un atleta di Dio. Mi domandavo quanti altri ettari avrebbe coperto di alberi.
Prima di partire il mio amico azzardò soltanto qualche suggerimento a proposito di certe essenze alle quali il terreno sembrava adattarsi. Non insistette. “Per la semplice ragione”, mi spiegò poi, “che quel signore ne sa più di me”. Dopo un’ora di cammino, dopo che l’idea aveva progredito in lui, aggiunse: “Ne sa più di tutti. Ha trovato un bel modo di essere felice!”.
E’ grazie a quel capitano che, non solo la foresta, ma anche la felicità di quell’uomo, furono protette. Fece nominare tre guardie forestali per quella protezione e le terrorizzò a tal punto che rimasero insensibili alle mazzette offerte dai boscaioli.
L’opera corse un grave rischio solo durante la guerra del 1939. Perché le automobili andavano allora col gasogeno, non c’era mai abbastanza legna. Cominciarono a tagliare le querce del 1910, ma l’area era talmente lontana da tutte le reti stradali che l’impresa si rivelò fallimentare dal punto di vista finanziario. Fu abbandonata. Il pastore non aveva visto nulla. Era a trenta chilometri di distanza, e continuava pacificamente il proprio lavoro, ignorando la guerra del ’39 come aveva ignorato quella del ’14.
Ho visto Elzéard Bouffier per l’ultima volta nel giugno del 1945. Aveva ottantasette anni. Avevo ripreso la strada del deserto ma adesso, nonostante la rovina in cui la guerra aveva lasciato il paese, c’era una corriera che faceva servizio tra la valle della Durance e la montagna. Misi sul conto di quel mezzo di trasporto relativamente rapido il fatto che non riconoscessi più i luoghi delle mie prime passeggiate. Mi parve anche che l’itinerario mi facesse passare in posti nuovi. Ebbi bisogno del nome di un villaggio per concludere che invece mi trovavo proprio in quella zona un tempo in rovina e desolata. La corriera mi portò a Vergons.
Nel 1913 quella frazione di una dozzina di case contava tre abitanti. Erano dei selvaggi, si odiavano, vivevano di caccia con le trappole; più o meno erano nello stato fisico e morale degli uomini preistorici. Le ortiche divoravano attorno a loro le case abbandonate.
La loro condizione era senza speranza. Non avevano altro da fare che attendere la morte: situazione che non dispone alla virtù.
Ora tutto era cambiato. L’aria stessa. Invece delle bufere secche e brutali che mi avevano accolto un tempo, soffiava una brezza docile carica di odori. Un rumore simile a quello dell’acqua veniva dalla cima delle montagne: era il vento nella foresta. Infine, cosa più sorprendente, udii il vero rumore dell’acqua scrosciante in una vasca. Vidi che avevano costruito una fontana; l’acqua vi era abbondante e, ciò che soprattutto mi commosse, vidi che vicino ad essa avevano piantato un tiglio di forse quattro anni, già rigoglioso, simbolo incontestabile di una resurrezione.
In generale Vergons portava i segni di un lavoro per la cui impresa era necessaria la speranza. La speranza era dunque tornata. Avevano sgomberato le rovine, abbattuto i muri crollati e ricostruito cinque case. La frazione contava ormai diciotto abitanti, tra cui quattro giovani famiglie. Le case nuove, intonacate di fresco, erano circondate da orti in cui crescevano, mescolati ma allineati, verdure e fiori, cavoli e rose, porri e bocche di leone, sedani e anemoni. Era ormai un posto dove si aveva voglia di abitare.
Da lì proseguii a piedi. La guerra da cui eravamo appena usciti non aveva consentito il rifiorire completo della vita, ma Lazzaro era ormai uscito dalla tomba. Sulle pendici più basse della montagna, vedevo i campicelli di orzo e segale in erba; in fondo alle strette vallate, qualche prateria verdeggiava.
Sono bastati gli otto anni che ci separano da quell’epoca perché tutta la zona risplenda di salute e felicità. Dove nel 1913 avevo visto solo rovine sorgono ora fattorie pulite, ben intonacate, che denotano una vita lieta e comoda. Le vecchie fonti, alimentate dalle piogge e le nevi che la foresta ritiene, hanno ripreso a scorrere. Le acque sono state canalizzate. A lato di ogni fattoria, in mezzo a boschetti di aceri, le vasche delle fontane lasciano debordare l’acqua su tappeti di menta. I villaggi si sono ricostruiti a poco a poco. Una popolazione venuta dalle pianure, dove la terra costa cara, si è stabilita qui, portando gioventù, movimento, spirito d’avventura. S’incontrano per le strade uomini e donne ben nutriti, ragazzi e ragazze che sanno ridere e hanno ripreso il gusto per le feste campestri.
Se si conta la vecchia popolazione, irriconoscibile da quando vive nell’armonia, e i nuovi venuti, più di diecimila persone devono la loro felicità a Elzéard Bouffier.
Quando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole. Ma, se metto in conto quanto c’è voluto i costanza nella grandezza d’animo e d’accanimento nella generosità per ottenere questo risultato, l’anima mi si riempie d’un enorme rispetto per quel vecchio contadino senza cultura che ha saputo portare a buon fine un’opera degna di Dio.
Elzéard Bouffier è morto serenamente nel 1947, all’ospizio di Banon.
[Testo scaricato dal sito: http://www.culturalegno.org/]
sabato 23 gennaio 2016
Intervista intervistati dal "Festival delle periferie"
Il gruppo del "fetival delle perifere" concorda un intervista con gli ortisti di viale Missaglia che raccontano la loro storia
CHI E' IL "FESTIVAL DELLE PERIFERIE"
SUPER è un festival lento che nasce per raccontare in modo attento: pratiche, persone, associazioni e realtà attive nelle periferie di Milano, che vogliamoliberare dallo stereotipo negativo che troppo spesso le accompagna.
Un lavoro di coinvolgimento e ascolto scandito dai tour che si concluderanno in estate quando inizieremo a curare dei progetti specifici, che si contamineranno con le realtà incontrate. Un archivio che costruiremo pian piano e che metteremo in scena con una festa finale.
Pagina Facebook "Festival delle periferie": link
Sito " "Festivad delle periferie": link
CHI E' IL "FESTIVAL DELLE PERIFERIE"
CHI E' IL "FESTIVAL DELLE PERIFERIE"
SUPER è un festival lento che nasce per raccontare in modo attento: pratiche, persone, associazioni e realtà attive nelle periferie di Milano, che vogliamoliberare dallo stereotipo negativo che troppo spesso le accompagna.
Un lavoro di coinvolgimento e ascolto scandito dai tour che si concluderanno in estate quando inizieremo a curare dei progetti specifici, che si contamineranno con le realtà incontrate. Un archivio che costruiremo pian piano e che metteremo in scena con una festa finale.
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CHI E' IL "FESTIVAL DELLE PERIFERIE"
sabato 12 dicembre 2015
Pulizia della roggia
C’era una volta una roggia.
L’avevano soprannominata “Regina” per la sua bellezza.
Scorreva in viale dei Missaglia. Attraverso essa i contadini del luogo irrigavano i propri campi.
Un giorno sopraggiunse il progresso. I contadini scomparvero e con essi si decretò l’interramento di un lungo tratto di quella roggia.
Non il perché né il per come. Sta di fatto che all’altezza di una via intitolata al poeta della musica Fabrizio de André, quella roggia suggestiva riappare per una ventina di metri per poi nuovamente incanalarsi.
Nel corso degli anni un ristretto numero di cittadini tutt’altro che intelligenti, in quel corso d’acqua vi ci hanno gettato di tutto; motorini, bottiglie persino una pistola. Mi raccontava un addetto dell’Amsa che più volte sono intervenuti per la bonifica.
In quel luogo ieri e oggi il gruppo de “La compagnia dell’anello” ha deciso di stazionare. Non con le mani in mano bensì armato di buona volontà ed attrezzature varie.
“La compagnia dell’anello” aveva una gran voglia di sporcarsi le proprie mani e l’ha fatto.
Ha raccolto 7 sacchi di immondizia, una montagna di arbusti due motorini rubati e quella pistola riconsegnata alle forze dell’ordine.
Oggi quella roggia è rinata orgogliosa di potersi finalmente richiamare "REGINA".
Grazie a tutti i partecipanti.
Una nota di merito anche alle forze dell’ordine e all’Amsa che ci hanno aiutato con il loro intervento di recupero materiale in questa opera di bonifica.
Ah dimenticavo ….. ora gli amici dell’Oasi Smeraldino ci verranno a dar dei consigli .... abbiamo voglia di ripopolare ancor più quel luogo di volatili felici.
ANNUNCIO
COSA ABBIAMO FATTO ....
COMUNICATI STAMPA
Milanosud - Gennaio 2016
Articolo di Nadia Mondi
> Scarica articolo
Il 12 dicembre i volontari hanno ripulito il corso d’acqua di via de Andrè
La “Compagnia dell’Anello” scende in... roggia
Raccolti e consegnati ad Amsa e alle forze dell’ordine oltre che immondizie varie un motorino e una pistola a salve
Come un temporale che inizia a fasi sentire da lontano, una nuova tendenza sta nascendo, coinvolgendo sempre più simpatizzanti. Una tendenza in controtendenza, nata dal desiderio di affrontare in modo diverso gli annosi problemi locali di degrado e di alienazione. Gruppi di cittadini si riuniscono per rimboccarsi le maniche, ripulire aree urbane poco curate o addirittura trattate come discariche, rinfoltire la vegetazione mettendo a dimora nuove piante o prendendosi cura di quelle esistenti e creando spazi di socializzazione in cui si lavora e si coglie anche l’occasione per conoscersi, stare insieme e divertirsi. E tutto questo su spazi pubblici. In particolare ci riferiamo all’area dell’anello di via dei Missaglia (ma non è l’unica) di cui già abbiamo parlato nel numero scorso a proposito della piantumazione di 170 piante ad opera di privati cittadini. Una seconda iniziativa è stata organizzata dagli stessi cittadini il giorno 12 dicembre. L’oggetto su cui è stata posta l’attenzione è la roggia Regina, che si trova nel parcheggio dell’ex bocciodromo e che si trovava in stato di grave degrado a causa di comportamenti incivili che l’avevano trasformata in una discarica a cielo aperto. I cittadini in questione si fanno chiamare la Compagnia dell’Anello, sfruttando il gioco di parole tra la denominazione della pista di biciclette (appunto, l’anello) e il primo volume del romanzo di Tolkien “Il Signore degli Anelli”. L’analogia è pertinente perché, come l’originale compagnia si riunisce per combattere l’Oscuro Signore che vuole togliere agli esseri viventi la libertà e la bellezza del loro mondo naturale e idilliaco, la neo formata Compagnia dell’Anello intende combattere il mostro del degrado, non solo ecologico ma anche etico e morale, dimostrando che con un po’ di buona volontà e di attenzione, si può vivere in un ambiente sano e pulito, in un contesto sociale sereno e attivo. Durante l’azione di pulizia del 12 dicembre (vedi foto sotto) sono stati raccolti molti oggetti che erano stati gettati illecitamente nella roggia e che sono stati successivamente rimossi dai camion dell’Amsa, avvertiti di questa iniziativa; addirittura un motorino era stato gettato nel corso d’acqua, che dopo essere stato spostato sul margine del fosso, è in attesa di essere ritirato dalla polizia locale.
Attimi di perplessità e preoccupazione sono stati vissuti quando in un piccolo contenitore di plastica è stata ritrovata addirittura una rivoltella. Avvisata subito la polizia, gli agenti hanno accertato trattarsi di una pistola a salve. E tuttavia la cosa non è ugualmente molto rassicurante. I cittadini hanno persino ricevuto la visita spontanea di due agenti delle guardie ecologiche, i quali, dopo avere ricevuto dalla compagnia doverose spiegazioni sull’attività in corso, si sono prodigati di fornire informazioni utili per poter agire nella legalità e ottenere relative autorizzazioni ufficiali per poter continuare con la loro azione di riqualificazione del territorio. La pulizia dell’area si è conclusa con la rimozione di rami secchi, foglie marce e rampicanti che soffocavano le piante. Purtroppo già due giorni dopo un sacchetto di immondizia e un secchio di plastica imbrattavano nuovamente il corso d’acqua. Ma i membri della CdA non si sono scoraggiati, il weekend successivo era di nuovo tutto pulito. Questa attività è in crescita perché è contagiosa. Fare qualcosa di buono non serve solo agli altri, serve anche a se stessi, per sentirsi meglio, perché si sviluppa la consapevolezza che si sta facendo qualcosa di buono, qualcosa di concreto. Un’ultima osservazione: polizia, guardie ecologiche, Amsa, vigili ed anche rappresentanti del Comune e del Consiglio di Zona 5 sono ora al corrente dell’esistenza di questo gruppo. Sappiamo anche che a livello istituzionale sono già in programma da tempo progetti per riqualificare corsi d’acqua e aree verdi. Se la Compagnia dell’Anello è riuscita ad attirare l’attenzione e ad accelerare i tempi o a far conoscere aree che non erano state considerate, ha raggiunto il proprio obiettivo: quello di lavorare in accordo con gli organi ufficiali e collaborare attivamente alla realizzazione di opere di bonifica. È superata l’epoca in cui si faceva una telefonata o si scriveva una lettera per segnalare la necessità di un intervento e poi si attendeva settimane o mesi prima che la macchina burocratica si mettesse in moto. È giunto il momento di mettersi insieme e lavorare. Questo è solo l’inizio. Altri gruppi di cittadini si stanno riunendo spontaneamente in altre aree per simili finalità. Ma di questo parleremo un’altra volta.
L’avevano soprannominata “Regina” per la sua bellezza.
Scorreva in viale dei Missaglia. Attraverso essa i contadini del luogo irrigavano i propri campi.
Un giorno sopraggiunse il progresso. I contadini scomparvero e con essi si decretò l’interramento di un lungo tratto di quella roggia.
Non il perché né il per come. Sta di fatto che all’altezza di una via intitolata al poeta della musica Fabrizio de André, quella roggia suggestiva riappare per una ventina di metri per poi nuovamente incanalarsi.
Nel corso degli anni un ristretto numero di cittadini tutt’altro che intelligenti, in quel corso d’acqua vi ci hanno gettato di tutto; motorini, bottiglie persino una pistola. Mi raccontava un addetto dell’Amsa che più volte sono intervenuti per la bonifica.
In quel luogo ieri e oggi il gruppo de “La compagnia dell’anello” ha deciso di stazionare. Non con le mani in mano bensì armato di buona volontà ed attrezzature varie.
“La compagnia dell’anello” aveva una gran voglia di sporcarsi le proprie mani e l’ha fatto.
Ha raccolto 7 sacchi di immondizia, una montagna di arbusti due motorini rubati e quella pistola riconsegnata alle forze dell’ordine.
Oggi quella roggia è rinata orgogliosa di potersi finalmente richiamare "REGINA".
Grazie a tutti i partecipanti.
Una nota di merito anche alle forze dell’ordine e all’Amsa che ci hanno aiutato con il loro intervento di recupero materiale in questa opera di bonifica.
Ah dimenticavo ….. ora gli amici dell’Oasi Smeraldino ci verranno a dar dei consigli .... abbiamo voglia di ripopolare ancor più quel luogo di volatili felici.
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Milanosud - Gennaio 2016
Articolo di Nadia Mondi
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Il 12 dicembre i volontari hanno ripulito il corso d’acqua di via de Andrè
La “Compagnia dell’Anello” scende in... roggia
Raccolti e consegnati ad Amsa e alle forze dell’ordine oltre che immondizie varie un motorino e una pistola a salve
Come un temporale che inizia a fasi sentire da lontano, una nuova tendenza sta nascendo, coinvolgendo sempre più simpatizzanti. Una tendenza in controtendenza, nata dal desiderio di affrontare in modo diverso gli annosi problemi locali di degrado e di alienazione. Gruppi di cittadini si riuniscono per rimboccarsi le maniche, ripulire aree urbane poco curate o addirittura trattate come discariche, rinfoltire la vegetazione mettendo a dimora nuove piante o prendendosi cura di quelle esistenti e creando spazi di socializzazione in cui si lavora e si coglie anche l’occasione per conoscersi, stare insieme e divertirsi. E tutto questo su spazi pubblici. In particolare ci riferiamo all’area dell’anello di via dei Missaglia (ma non è l’unica) di cui già abbiamo parlato nel numero scorso a proposito della piantumazione di 170 piante ad opera di privati cittadini. Una seconda iniziativa è stata organizzata dagli stessi cittadini il giorno 12 dicembre. L’oggetto su cui è stata posta l’attenzione è la roggia Regina, che si trova nel parcheggio dell’ex bocciodromo e che si trovava in stato di grave degrado a causa di comportamenti incivili che l’avevano trasformata in una discarica a cielo aperto. I cittadini in questione si fanno chiamare la Compagnia dell’Anello, sfruttando il gioco di parole tra la denominazione della pista di biciclette (appunto, l’anello) e il primo volume del romanzo di Tolkien “Il Signore degli Anelli”. L’analogia è pertinente perché, come l’originale compagnia si riunisce per combattere l’Oscuro Signore che vuole togliere agli esseri viventi la libertà e la bellezza del loro mondo naturale e idilliaco, la neo formata Compagnia dell’Anello intende combattere il mostro del degrado, non solo ecologico ma anche etico e morale, dimostrando che con un po’ di buona volontà e di attenzione, si può vivere in un ambiente sano e pulito, in un contesto sociale sereno e attivo. Durante l’azione di pulizia del 12 dicembre (vedi foto sotto) sono stati raccolti molti oggetti che erano stati gettati illecitamente nella roggia e che sono stati successivamente rimossi dai camion dell’Amsa, avvertiti di questa iniziativa; addirittura un motorino era stato gettato nel corso d’acqua, che dopo essere stato spostato sul margine del fosso, è in attesa di essere ritirato dalla polizia locale.
Attimi di perplessità e preoccupazione sono stati vissuti quando in un piccolo contenitore di plastica è stata ritrovata addirittura una rivoltella. Avvisata subito la polizia, gli agenti hanno accertato trattarsi di una pistola a salve. E tuttavia la cosa non è ugualmente molto rassicurante. I cittadini hanno persino ricevuto la visita spontanea di due agenti delle guardie ecologiche, i quali, dopo avere ricevuto dalla compagnia doverose spiegazioni sull’attività in corso, si sono prodigati di fornire informazioni utili per poter agire nella legalità e ottenere relative autorizzazioni ufficiali per poter continuare con la loro azione di riqualificazione del territorio. La pulizia dell’area si è conclusa con la rimozione di rami secchi, foglie marce e rampicanti che soffocavano le piante. Purtroppo già due giorni dopo un sacchetto di immondizia e un secchio di plastica imbrattavano nuovamente il corso d’acqua. Ma i membri della CdA non si sono scoraggiati, il weekend successivo era di nuovo tutto pulito. Questa attività è in crescita perché è contagiosa. Fare qualcosa di buono non serve solo agli altri, serve anche a se stessi, per sentirsi meglio, perché si sviluppa la consapevolezza che si sta facendo qualcosa di buono, qualcosa di concreto. Un’ultima osservazione: polizia, guardie ecologiche, Amsa, vigili ed anche rappresentanti del Comune e del Consiglio di Zona 5 sono ora al corrente dell’esistenza di questo gruppo. Sappiamo anche che a livello istituzionale sono già in programma da tempo progetti per riqualificare corsi d’acqua e aree verdi. Se la Compagnia dell’Anello è riuscita ad attirare l’attenzione e ad accelerare i tempi o a far conoscere aree che non erano state considerate, ha raggiunto il proprio obiettivo: quello di lavorare in accordo con gli organi ufficiali e collaborare attivamente alla realizzazione di opere di bonifica. È superata l’epoca in cui si faceva una telefonata o si scriveva una lettera per segnalare la necessità di un intervento e poi si attendeva settimane o mesi prima che la macchina burocratica si mettesse in moto. È giunto il momento di mettersi insieme e lavorare. Questo è solo l’inizio. Altri gruppi di cittadini si stanno riunendo spontaneamente in altre aree per simili finalità. Ma di questo parleremo un’altra volta.
domenica 29 novembre 2015
Piantumazione ex terreni Ligresti al Ticinello
In quello splendido luogo ci uniamo al gruppo di Laura "il teatro del mare".
Assieme a loro mettiamo a dimora 50 piante donateci dall' ERSAF
Una grande festa in cui offriamo vin brulè e cibo portato da tutti i partecipanti
Al termine una lezione di Yoga che Laura ci regala
Gruppo Facebook "il teatro del Mare" di Laura: Link
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COSA ABBIAMO FATTO ....
domenica 22 novembre 2015
Piantumazione di 170 alberi
Decidiamo di organizzare una festa coinvolgendo il quartiere e persone attraverso annunci sui social.
Le piante qual giorno diverranno circa 170, donate da liberi cittadini.
Arriva gente sin da Bologna con le proprie piante.
Le mettiamo tutte a dimora disponendole attorno l'anello di viale dei Missaglia.
Una grande festa in cui offriamo vin brulè e cibo portato da tutti i partecipanti
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COSA ABBIAMO FATTO ....
COMUNICATI STAMPA
Milanosud - Dicembre 2016
Articolo di Stefano Ferri
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In azione decine di volontari provenienti da tutta la città e perfino da Bologna
Piantati oltre 170 alberi all’anello di via dei Missaglia
Querce, pioppi, cipressi, camelie, abeti, eucalipti, conifere e conifere. Sono queste alcune delle specie di piante messe a dimora il 22 novembre scorso all’anello di via dei Missaglia, in occasione di “Piantiamola”, l’iniziativa autogestita di riforestazione urbana. Attraverso un passaparola che si è sviluppato sui social e con l’aiuto degli ortisti di via di Missaglia, sono state messe a dimora intorno all’anello quasi 200 piantine. Protagonisti decine di volontari provenienti da tutta la città e anche da fuori Milano. Addirittura alcuni sono arrivati fin da Bologna, con 50 piante nel bagagliaio. Molte le persone aggregatisi “seduta stante”, perché a passeggio o a fare jogging lungo l’anello. «È stata un’idea virale partita la primavera scorsa quando Roberto, Stefano e Pascal hanno iniziato a mettere a dimora delle piantine lungo l’anello - ci racconta Mario, ortista che ha offerto ai volontari, assieme ai suoi spazi, vin brulè e torte. Dopo loro sono arrivati altre persone con piante e semi, così abbiamo deciso di organizzare l’iniziativa Piantiamola». Ora ortisti e volontari proveranno a curare le piantine, per evitare che muoiano durante l’inverno « Abbiamo bisogno di acqua - ci spiega Mario – ci piacerebbe che i lavori previsti qui all’anello dal Comune comprendano anche una o due fontanelle, sarebbero utili per coloro che fanno sport e per noi per innaffiare le piante». Gli organizzatori promettono altre iniziative analoghe, in zona e in altre parti della città.
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